Il triste destjno dei rappattumat

rappattumare

Il lato trash dei litigi.

‘Cerchiamo di rappattumare’ è una cosa che diceva mio padre dopo discussioni accese. Per me, bambina, voleva dire più o meno: “Su ora basta, raccogliamo i cocci e risistemiamoli nella pattumiera.” All’epoca non ci facevo caso, ma la questione è sottile e lascia intendere che la situazione di partenza faccia già piuttosto schifo o che comunque sia destinata a deteriorarsi rapidamente.

Ora, nel filo del ragionamento a ruota libera, provo a immaginare dei sinonimi, tanto per iniziare un discorso. Re immondiziare, re monnezzare, ri scovazzare. In un’accezione più ecosostenibile, ri differenziare. Hm, questa mi piace già di più… Tipo che uno si mette lì, spaparanzato per terra nella schifezza di rancori, arrabbiature, speranze agonizzanti e parole bruttissime e con pazienza li separa. Può essere utile visualizzare la scatoletta di pelati (e attenzione a non tagliarsi!), il tubetto di dentifricio, le ossa di pollo, le bucce di banana, le cacche del gatto. A carponi, e con infinita pazienza si rimanda quindi ogni cosa al suo destino. Sì, ogni scarto al fottutissimo posto che si merita.

I nostri sacchetti dell’immondizia, ad ogni buon conto, la raccontano lunga su chi siamo e su come ce la stiamo passando. Quando in casa mia ci sono ciocchi e malumori di solito la differenziata patisce a discapito di orrendi mucchi che debordano sotto al lavandino fino a rovesciarsi fuori dal mobiletto. Poi si fa pace (preferisco dire così) e i bidoncini colorati del differenziato sembrano di nuovo sorriderti a coperchio aperto.

Tempo fa mi aveva incuriosito il reportage di un fotografo artista sul contenuto dei cassonetti delle ville dei vip. Se ho inteso bene, il tipo andava a rovistare nei bidoni fingendosi magari barbone, poi sistemava con cura gli scarti facendone piccole opere d’arte che infine immortalava. Tra i colori fané del superfluo, spiccava la nuance argentata dei blister di antidepressivi e sonniferi. Tutto il resto partecipava al mosaico in misura minore. Una gran bella metafora del mal di vivere. In quelle storie lì, tra narcisismi e successi di zucchero, altro che rappattumare

Ma c’è chi dell’immondizia ha fatto anche dei magnifici atti creativi. Mio figlio quando gli raccontavo le storie prima della nanna voleva sempre che cominciassi con: “C’era una volta un grandissimo camion della spazzatura…” e poi lui continuava con descrizioni minuziose di quello che c’era dentro; un incipit insolito per iniziare delle fiabe trash (si, qui è proprio il caso di dirlo), ma comunque a lieto fine.

C’era la principessa buccia d’arancia (me la immaginavo come una robustona con natiche arrotondate dalla cellulite e ben rosolate sotto un sole rosso di inizio estate). Costei era innamorata (poveretta, una causa persa in ogni caso) del principino Tonno Rio del Mare (e qui il nome la dice lunga. Probabilmente la sua espressione era da pesce morto e comunque era caduto nella rete della protagonista.) Poi, con la comparsa del rivale, il cocciuto e amarissimo Nocciolo da Pesca succedevano un sacco di equivoci: schegge di vetro e ossa rotte finché a sistemare tutto arrivava l’orrido Pampers. Un tipo trucido anche un po’ puzzone che faceva scappare tutti.

E giù un sacco di risate. Sì, ricordi carini…

Ma torniamo a bomba su quella cosa del rappattumare. Siccome mio padre aveva una personalità tendente al depresso (ma simpatico) e inventava molte parole bizzarre, immaginavo che quella strana onomatopea fosse una sua creatura dal retrogusto un po’ noir e da quel tipico intento rassegnato.

E invece il verbo buffo che sta per rappacificare, riconciliare o ‘fare ognun contento’ lo usava già il Boccaccio, come cita il Vocabolario della Crusca:
“Entrò col mosto, e colle castagne calde si rappattumò con lui.” Poi nell’olimpo della Santa Madre Lingua Italiana si cita anche una frase di Tacito: “Mitridate gli fu mezzano a rappattumarlo col padre.” Insomma, se ho capito bene, per rappattumare le cose ci va un intermediario, che sia un Sovrano pontico o un semplice taralluccio.

Beh, sempre meglio che fare le cose da soli ché, in fondo, diventano anche noiose. E qui possiamo tentare di formulare un’enunciazione tipo: “Al fine di potersi rappattumare, occorre almeno essere in tre.” E smettetela di pensare subito a cose strane, che tanto vi ho beccati. Questa parola non possiede nessun significante erotico!

Invece, portando la divagazione verso sfere più raffinate, mi ha colpito un’usanza giapponese dai graziosi canoni estetici. Si tratta di una tecnica che riplasma i cocci con una colla dorata trasformando il vaso rotto in una preziosa opera d’arte.

Si chiama kintsugi (金継ぎ letteralmente oro “kin” e riunire, riparare, ricongiunzione “tsugi”). Due caratteri per dire la stessa cosa: Riparare. La differenza è che qui non servono intermediari o nel caso, squisite Geishe. Il messaggio è chiaro e sposta il focus su uno scenario positivo e innovatore. Di una gran rottura rimane una cosa bella (e, a discapito di previsioni pessimistiche, mai deteriorabile).

Per me grandi rotture hanno catjvuo oduor di futuro. Kuome minestra riscaldat. No buona per njente. Buta tutto via e velocje!